Riflessioni sull’estetica musicale:tributo ad un artista ibleo
Saggio-recensione de La Sicilia musicale
Pino Racioppi
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Due serate musicali al Centro Studi "F. Rossitto"
Musica in dis-uso.
 
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A Modica Pino Racioppi, vate dell'autentica canzone napoletana di Dario Adamo

Palazzo dei Mercedari, 6 maggio 1999. Questa sera è di scena la canzone napoletana. Da un’associazione concertistica ci si sarebbe aspettato un concerto tenorile, di quelli che infestano la scena massmediologica contemporanea, in cui la canzone partenopea è solo un pretesto per dare sfogo commerciale a studi lirici. Nulla di tutto questo. Pino Racioppi, sui binari della vera tradizione napoletana dei Murolo e dei Cigliano, ci ha regalato delle emozioni attraverso la sua chitarra - su cui senza esibizionismo, ha mostrato una versatile padronanza tecnica - e, soprattutto, con la sua intima e coinvolgente vocalità. L’artista di Lagonegro ha presentato all’uditorio modicano degli ‘Amici della Musica’ un itinerario popolare napoletano di elevati contenuti culturali. Troppo semplice sarebbe stato presentare una carrellata di evergreens. Questo viaggio ha invece condotto il pubblico per i sentieri del canzoniere napoletano dal XIII al XX secolo. Vere chicche della ricerca musicologica gli anonimi napoletani eseguiti nella prima parte della serata. Apre il concerto la canzone dugentesca Jesce sole, seguita dalla Villanella che all’acqua va dai sapori rinascimentali e dalla celebre Michelemmà (sec. XVII). Dopo questo brillante avvio di concerto, Racioppi ha deliziato gli astanti con inediti del Settecento per concludere con l’incandescente Lu guarracino, il noto brano in cui la perizia del nostro ‘cantastorie’ sciorina ben ottantadue specie ittiche presenti all’epoca nel Golfo di Napoli. La seconda parte della serata ha coinvolto la canzone d’autore. Racioppi ha eseguito, sempre in rigoroso ordine cronologico e con la stessa cura filologica nella resa tecnica che aveva contraddistinto la prima parte, quei brani composti da noti musicisti che hanno attinto a piene mani dalla tradizione popolare: apre la serie la cinquecentesca Sto core mio del fiammingo Orlando di Lasso. Poi di seguito la scelta è caduta su canzoni degli operisti sette-ottocenteschi Leo Vinci, Vincenzo Bellini (al quale viene attribuita la famosa Fenesta che lucive), Gaetano Donizetti, Giovanni Paisiello e Saverio Mercadante, tutti protagonisti o tributari della cosiddetta ‘Scuola operistica napoletana’. La conclusione del concerto ha visto protagonista anche la canzone ‘A Vucchella composta sul testo di Gabriele D’Annunzio da Francesco Paolo Tosti, autore di pregevoli romanze da salotto a cavallo tra Otto e Novecento. Ultima tappa del suggestivo percorso non poteva che riguardare la ‘scuola popolare napoletana’ del Novecento, dal cui repertorio è stata offerta l’esemplare ‘E spingole francese! nata dalla collaborazione fra il poeta Salvatore Di Giacomo e Enrico De Leva. Il successo del progetto di Racioppi sta nell’aver condotto il suo itinerario mettendo in evidenza come la vocalità, strettamente legata al parlato comune, costituisca l’essenza immutabile (o quasi) della musica napoletana attraverso i secoli.

L’evento di questa sera ha reso palese, a chi ha avuto la fortuna di prendervi parte, che i confini tra colto e popolare sono talmente labili che una vera contrapposizione cessa di avere senso compiuto. Ma, nella maggior parte dei casi, oggi la musicologia ha confinato l’attuale forma-canzone, non senza immotivato disprezzo, in una casella del suo sistema ‘preconcetto’ corrispondente al genere che ha chiamato ‘leggero’ (nel quale, oltre alla canzone, si fa rientrare il ballabile). Il repertorio della cosiddetta ‘musica leggera’ - come teorizzato da questa musicologia accademica - apparterrebbe ad una fase avanzata della civiltà industriale occidentale e coinciderebbe con la musica prodotta per l’intrattenimento della cultura di massa. Ma essa non è altro che un riemergere di istanze popolari che nei secoli, pur continuando il loro ‘cammino etnico’, sono state adombrate - solo secondo una visione storiografica - dalla musica colta (che non ha però disdegnato di attingervi abbondantemente). Fortunatamente questa stantia visione scolastica trova oggi dei validi denigratori. Parte di essi, ricollegandoci a quanto udito stasera, hanno trovato proprio nel melos napoletano un efficace esempio per poter sovvertire l’errata concezione accademica. Oggi si riconosce il ruolo determinante giocato dal repertorio napoletano nella storia della canzone italiana almeno fino al travolgente avvento della canzone anglofona (il beat inglese e il pop statunitense). Il mondo della canzone italiana del secondo dopoguerra quindi ha visto un emergere di altri dialetti regionali trasfigurati in lingua italiana e musicalmente debitori delle mode europee e americane. Ma la storia ci dimostra che ogniqualvolta la cultura musicale italiana entra in fase critica non fa altro che attingere al serbatoio napoletano, un esplosivo mix di mediterraneità, di cui, forse, gli ultimi successi di critica emersi dal teatrino di Sanremo (e mi riferisco ai pur edulcorati esempi di D’Angelo e Gragnaniello) rappresentano un efficace esempio.